THE MORTAL INSTRUMENTS Series book 4
“City of fallen Angels”
Non ho mai scritto prima d’ora un commento a un libro della Mortal Instruments series, nonostante le ripetute e incantate letture, nonostante abbia contagiato non so più quanti amici consigliandola loro, nonostante si tratti di una delle serie che amo di più in assoluto. Anzi, proprio per questo. Perché è più facile scrivere un commento annotando qualche critica e riuscendo a rimanere parzialmente distaccati; difficile invece trovare gli aggettivi sinonimi di “bello”, “sorprendente”, “fantastico”, e riuscire a spiegare come è piaciuto e soprattutto perché è piaciuto qualcosa che ha fatto innamorare il cuore e ha affascinato il pensiero, creando un piccolo mondo proprio e indelebile dentro me. Anche questa volta mi trovo nella medesima difficoltà, nonostante questo quarto libro mi sia apparso meno “pulito” dei precedenti e forse meno brillante, se pur sempre coinvolgente…
Ma ogni singolo libro di Cassandra Clare riesce ad essere qualcosa in più di un semplice scritto, nero su bianco. La sua scrittura è capace di creare realtà e personaggi straordinariamente tridimensionali, complessi e al contempo accessibili, dotati del raro dono di entrare con naturalezza ma anche con prepotenza nell’immaginario della fantasia e nell’emozione del cuore!
Clary, in piedi sulla porta, trattenne un sospiro. L’ordine andava bene, ci era abituata. In fondo, aveva sempre pensato, era il modo in cui Jace esercitava il controllo sugli elementi di una vita che altrimenti sarebbe sembrata in preda al caos. Aveva vissuto così a lungo senza sapere chi e cosa fosse davvero, quindi non poteva certo rimproverarlo per l’ordine alfabetico con cui aveva disposto la sua raccolta di poesie.
La storia d’amore fra Jace e Clary è infatti una di quelle che entrano nel cuore, vi prendono dimora e, da padrone quali sono, ne fermano i battiti o li accelerano a proprio piacimento e anche solo lasciando sfuggire un sospiro o pronunciando una frase:
“Non lo sapevo” riprese lui. “Non lo sapevo che avevi bisogno di me.” A Clary si incrinò la voce. “Io ho sempre bisogno di te.”
Non so se il merito sia da attribuire alla maestria con cui la Clare la costruisce, o alla struggente separazione forzata tra i due nel periodo in cui credono di essere fratello e sorella che le ha conferito una duratura impronta dolorosa e nostalgica, o al loro essere due personaggi così unici, così semplicemente se stessi da risultare assolutamente veri e vivi. Probabilmente è merito di ciascuna di queste cose, che hanno contribuito a fare di Jace e Clary una delle coppie più coinvolgenti e romantiche e purtroppo drammatiche della letteratura urban fantasy. E se dovessi rimproverare qualcosa all’autrice, sarebbe proprio il non aver concesso con l’inizio di questa seconda trilogia, a Jace e Clary come a me lettrice, qualche capitolo del loro amore finalmente sereno; non solo dopo poche righe si mostrano minacciosi nuvoloni all’orizzonte, ma presto si scatenano in tempesta e, con il terribile cliffhanger finale, si scuriscono e gettano la loro ombra sul futuro promettendo altro dolore, incertezza e distruzione…
Ma la grandezza dei libri della Clare è nella ricchezza delle caratterizzazioni, del mondo soprannaturale creato, dei temi che affronta, che non si limitano all’amore romantico per quanto importante e dominante. Pare incredibile come questa autrice ponga in frasi e situazioni semplici, temi vecchi come l’uomo e imponenti come le montagne. Nella prima trilogia si concentrava tra le altre cose sul rapporto tra genitori e figli, sulla legittimità dell’amore oltre ogni possibile convenzione sociale e naturale (il legame tra Jace e Clary ha sfiorato l’incesto per due terzi di trilogia), sull’accettazione del diverso, sull’identità della persona che è determinata dal chi si decide di essere a discapito del chi si è per nascita. In questo quarto volume l’autrice aggiunge una riflessione continua sull’immortalità attraverso il personaggio di Simon, trasformato da poco in vampiro; ma invece di perdersi in disquisizioni psico-filosofiche, scene plateali o argomentazioni stereotipate, lascia al bellissimo personaggio di Magnus l’ingrato compito di svelare a Simon (e al lettore!), con poche semplici parole cariche di nostalgia e tristezza, la verità troppo grande che da solo ancora non riesce ad afferrare sulla caducità del tempo da trascorrere con le persone che amano, sulla mortalità di queste persone e sul devastante e spaventoso e solitario futuro infinito che attende invece loro due:
“Hey, vampiro! Si origlia?” “A dire il vero non mi piace quando la gente mi chiama così. Ho un nome” rispose Simon. “E credo che farò bene a ricordarmelo. Dopotutto fra cento o duecento anni ci saremo soltanto io e te.” Magnus lo guardò con aria pensierosa. “Saremo tutto ciò che resta.”
Chapeau!
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