My rating: 4 of 5 stars
Ho fatto questo sogno (こんな夢を見た - Konna yume o mita).
Così comincia il primo di questi dieci racconti, sfuggenti proprio come i sogni. È sfuggente il tempo – cento anni passano in poche righe, il sole sorge e tramonta nell'arco di brevi istanti, da Oriente o forse da Occidente. Sfuggenti sono la sequenzialità e lo spazio – il sognatore è protagonista del sogno un attimo e quello dopo ne è solo uno spettatore, si trova in luoghi ed epoche a lui tanto distanti, incontra amici e sconosciuti, figure famose del passato, demoni e kami. E infine è sfuggente il senso sotteso a ciascun racconto, il messaggio che si vorrebbe cogliere, ma che ogni volta che si pensa di avere afferrato scivola tra le dita, inconsistente eppure non indifferente: lascia sempre una traccia, un'emozione, la sensazione di avere scorto qualcosa di importante.
Ho trovato meraviglioso e poetico il sogno della prima notte; evocativo e forse più comprensibile di altri in una chiave psicologica il sogno della settima sulla nave; struggenti quelli della quinta e della nona, in cui la speranza viene ingannata e derisa. Davvero inquietante il sogno del fardello della terza notte e interessanti quello della seconda, in cui il samurai cerca inutilmente l'illuminazione, e quello della sesta, con la presenza del famoso scultore Unkei. Lontani invece dal mio sentire, almeno in questa stagione della mia vita, i sogni della quarta, ottava e decima notte.
La prima notte
Mi sedetti sul muschio. "Dovrò attendere così per cento anni" pensai mentre guardavo, a braccia conserte, la pietra tombale rotonda. Di lì a poco, proprio come aveva detto la donna, il sole sorse da est. Era un grande sole rosso. E così come lei aveva predetto, poco dopo tramontò a ovest, all'improvviso e ancora rosso com'era. Uno, contai.
Dopo un po' quel luminosissimo corpo celeste cominciò di nuovo a sorgere piano. E in silenzio tramontò. Due, contai.
Non so quanti soli rossi vidi stando lì a contare in quel modo. Contavo e contavo, un numero quasi infinito di soli rossi passò sopra la mia testa. Eppure non erano ancora passati cento anni.
La seconda notte
Ma resistetti e rimasi seduto immobile. Fino a che una tristezza quasi insopportabile mi riempì il petto. Quella tristezza sollevava tutti i muscoli del mio corpo e aveva una gran furia di uscire dai pori della pelle. Ma era tutto ostruito, non c'era alcuna via d'uscita.
La terza notte
Pioveva da un po' e la strada diventava sempre più buia. Ero come in un delirio. E quel demonietto che mi stava attaccato alla schiena come uno specchio che non si lascia sfuggire assolutamente alcun particolare rifletteva e illuminava il mio passato, il presente e il futuro in ogni suo dettaglio. E per di più quello era mio figlio. Ed era cieco. Non ne potevo più.
La quarta notte
Ma il vecchio continuava a cantare
Diverrà profondo! Si farà notte!
Diverrà dritto!
e continuava a procedere avanti sempre dritto.
La quinta notte
Il generale guardò il mio volto attraverso il fuoco del falò. "Vivere o morire?" mi chiese. A quei tempi si usava chiedere comunque questa cosa a tutti i prigionieri. Se rispondevi vivere significava che ti eri arreso; se rispondevi morire significava che non ti sotto mettevi. "Morire" risposi.
La sesta notte
Poi finalmente mi resi conto che delle divinità guardiane non potevano essere sepolte in nessun tipo di legno dei giorni nostri, l'epoca Meiji. Allora capii, grossomodo, anche la ragione per cui Unkey era rimasto in vita fino ad oggi.
La settima notte
Tutto mi diventò ancora più tedioso e infine presi la decisione di morire. Allora una sera, quando attorno a me non c'era nessuno, senza esitare mi gettai in mare. Ma nell'istante in cui il piede si staccò da ponte di coperta, quando recisi il mio legame con la nave, improvvisamente la vita mi diventò preziosa. [...] Ma era ormai troppo tardi per trarre alcun vantaggio da questa mia intima comprensione e così continuai a cadere silenziosamente verso quelle onde nere avvolto da un infinito terrore e un infinito rimorso.
L'ottava notte
Pagai il conto e quando uscii dal negozio vidi sulla sinistra della soglia circa cinque secchielli messi lì in mostra. Dentro c'erano moltissimi pesci rossi, alcuni di colore rosso, altri maculati, alcuni magri e altri grassi. Dietro i secchi c'era il venditore che, il mento tra le mani, guardava fisso quei pesci disposti davanti a sé. Non prestava alcuna attenzione al chiassoso viavai dei passanti. Restai lì un po' in piedi a osservarlo. Lui non si mosse nemmeno un po' per tutto il tempo che lo stetti a guardare.
La nona notte
Cominciava a esserci una vaga inquietudine nel mondo. Pareva che da un momento all'altro potesse scoppiare una guerra. [...] Eppure dentro quella casa c'era un profondo silenzio.
La decima notte
In quel momento, guardando dall'altra parte, Shōtarō si accorse che la verde piana era ricoperta fin dove si esauriva la vista di centinaia di migliaia di maiali, un enorme branco che avanzava grugnendo e puntando verso lui sul bordo del precipizio. Shōtarō rabbrividì d'orrore fino al midollo, ma non aveva altra scelta, e continuò a battere uno a uno cortesemente con il suo bastone da passeggio la punta del muso dei maiali che si avvicinavano.[...] Facendo disperatamente appello a tutto il suo coraggio, Shōtarō continuò a colpire, grugno dopo grugno, per sei notti. Ma infine la sua forza si esaurì e le mani gli divennero molli come l'impasto gelatinoso del konyaku tanto che i maiali finirono con leccarlo. Così cadde nel precipizio.
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