Il Giappone è il paese dei contrasti evidenti – nella sua continua tensione tra passato e futuro, tra tradizione e tecnologizzazione, tra orgoglio nazionale e occidentalizzazione – e dell’incoerenza sotterranea – nello scontro tra l’immagine pubblica dei suoi abitanti, discreta, ligia, rispettosa e quella più intima, nascosta, che tende alla trasgressione o alla fuga. Su questa seconda caratteristica sembra concentrarsi il romanzo di Francesca Scotti che con una scrittura nitida ed essenziale, efficacemente distaccata e asettica, racconta l’isolamento, l’alienazione, la distanza del titolo. Che non è quella dei chilometri che separano la protagonista Vittoria, partita dall’Italia alla volta del Giappone, da casa e da coloro che ama, ma quella che via via, sola in quel Paese, instaura tra sé e gli altri, tra sé e il mondo e persino con se stessa.
C’è una nota fortemente fatalista nel suo viaggio verso il Giappone (organizzato per raggiungere un uomo che alla vigilia della sua partenza la avvisa di aver invece lasciato il Paese) e nel prolungamento, mai giustificato né quantificato, del soggiorno, che diventa infine permanente. La stessa nota che si avverte anche nell’atteggiamento di Vittoria nei confronti delle difficoltà di ambientazione e di sostentamento (le prime archiviate sempre con un certo under statement: “Il Giappone continua a farmi questo effetto, una sorta di vulnerabilità che mi fa tornare bambina: fatico a leggere, scrivere è un po’ come disegnare, e sono disposta a credere a tutto. O quasi”; le seconde con una breve citazione a due lavoretti part-time) e, soprattutto, delle varie figure che entrano nella sua sfera di attenzione. Di quelle con le quali instaura una – moderata – relazione, accetta volentieri l’educato contegno e la riservatezza, ma si stupisce del candore con cui, inaspettatamente, all’improvviso la rendono parte di segreti importanti, spaventati o spaventosi (una gravidanza a rischio e un tentato suicidio). Da molte altre, invece, è fortemente attratta ma rimane spesso lontana, a osservare, ad attendere un momento giusto per fare un passo verso di loro, che però arriva sempre troppo tardi, perché proprio quando decide di avvicinarle, queste svaniscono (come la custode del suo appartamento o il salaryman incontrato sul treno) o si trasformano (come Lorenzo, l’uomo per il quale è partita, o la ragazza maniaca del makeup).
È così che l’autrice, attraverso l’ombra delle vite di queste figure, tratteggia con levità e un singolare senso di accettazione scorci umani di quelle che sono tra le più endemiche piaghe sociali in Giappone, senza tuttavia dar loro un nome né banalizzandole in stereotipi: lo shinjuu (il suicidio di due amanti per una relazione contrastata, dalle radici antiche), il johatsu (letteralmente “evaporare, sfumare nel nulla”; è il fenomeno della scomparsa delle persone, che fuggono non lasciando che un ricordo dietro sé: “Una soluzione c’è ed è sparire. Scappare da una persona, da molte. Da una quotidianità feroce. Diventare un ricordo, per poter essere ovunque e in nessun luogo. Evaporare.”), il suicidio (raccontato qui nella variante più tristemente diffusa nel Paese, il gettarsi sui binari ferroviari) e gli appena accennati e sfiorati hikikomori (la reclusione e l’isolamento volontari in casa, nel caso di Yuya dovuti alla fobia ossessiva nei confronti delle radiazioni post-terremoto), lo ijime (il bullismo) e il lolicon (l’attrazione morbosa verso le ragazzine).
Ma nessuno di questi eventi turba la protagonista o devia il suo percorso, né appesantisce una narrazione che, sempre scorrevole, mantiene una continua leggerezza, un’impalpabile sospensione dal giudizio e dalla drammatizzazione. E che queste tragedie non tocchino in profondità Vittoria, le rimangano in qualche modo estranee – o le siano piuttosto forse talmente intime e naturali da non viverle come drammi –, è manifesto nel suo scoprire, giorno dopo giorno, di sentirsi a proprio agio in quello stesso Paese in cui sono avvenute, in quel Paese le cui regole e il modus vivendi imposto le hanno in qualche modo provocate.
“E a lei cosa piace del Giappone?”. In effetti è la prima volta che mi trovo a rispondere a quella domanda, e forse è anche la prima volta che me la pongo. “Mi piacciono i contrasti, la sensazione di sicurezza.” Annuisce ma non sembra soddisfatto. Mi chiede come mi chiamo. Gli rispondo e gli spiego il significato del mio nome. “Ha un nome importante, mi piace. Vittoria, non si dimentichi quello che sto per dirle: il Giappone è un Paese sicuro per il corpo, ma pericoloso per la mente.” Intuisco il significato della sua affermazione, ma non so se voglio approfondire. “Del Giappone mi piace anche la tranquillità” aggiungo.
Così, L’origine della distanza non è un diario di viaggio in un Paese sconosciuto e affascinante e non è nemmeno il diario di una crescita personale, della scoperta di sé. Piuttosto è il racconto di un destino – se nato dalla casualità o dalla predestinazione non ha importanza – accettato e vissuto con accondiscendente e passiva consapevolezza. Quello raccontato da Vittoria, infatti, non è il Giappone tratteggiato dall’incantato e innamorato Hearn, né quello descritto dall’ammirato Maraini o quello sezionato e criticato da Terzani Staude, e neppure quello nato da penne entusiaste di viaggiatori contemporanei (sto pensando al romanzo letto di recente di Chiara Gallese, ad esempio, Tokyo Night). La Scotti ci descrive il volto più formale e asettico del Giappone e ci fa intravvedere, senza scomporsi, senza paventarlo, quello che di umano e “ribelle” vi si nasconde dietro (appropriata metafora, ad esempio, è la sua citazione del disordine che regna nei vicoli e negli angoli “privati” sui quali non cadono occhi estranei, mentre le facciate, il lato pubblico, sono sempre lindi e rigidamente disciplinati). La sua, allora, più che accettazione, più che desiderio di deresponsabilizzazione dalla vita, è una singolare e profonda integrazione. Come se la duplicità del Paese – il formalismo e la ribellione, la meraviglia e la degradazione – facesse parte della sua anima, come se l’essenza di quel popolo fosse un tratto ormai acquisito, interiorizzato. Suo.
Non era passato molto tempo da quando avevo lasciato l’Italia, eppure vedevo già le cose in maniera diversa. Mi sembrava di essere scesa dall’aereo una vita fa. La decisione di non tornare nel mio Paese credo di averla maturata un po’ ogni giorno, e me ne accorgo ora. Le emozioni che mi davano alcuni luoghi, oggetti e storie aumentavano di intensità anziché dissolversi. Mi accorgevo di sentirmi al posto giusto nonostante non avessi nient’altro oltre a me stessa. Forse avevo bisogno di ritrovare un po’ di silenzio, uno spazio solo per me. E di capire cosa fosse accaduto a quella storia di fascinazione e distanza sulla quale avevo tanto investito.
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