Ogni libro di Dürrenmatt che ho letto pare avere il coinvolgente, cadenzato, onirico ritmo di una ballata e la straordinaria capacità di trasformare la rivisitazione e manipolazione di un mito in un nuovo e universale archetipo. Come Il Minotauro rielaborava il mito del Labirinto come luogo della segnalazione dell’alterità e del riconoscimento dell’ineluttabile solitudine cui è destinato l’uomo [vedi Specchless Magazine 01, pagg. 108-111], La morte della Pizia rianima il mito di Edipo come metafora dell’insondabilità e dell’inafferrabilità della Verità.
Nella versione di Dürrenmatt, capriccio, arroganza, premeditazione e corruzione hanno composto, con irriguardosa beffa nei confronti degli dei, la serie di oracoli che hanno fatto da guida alla vicenda di Edipo, Giocasta e Laio e della Sfinge. Qualcuno di questi personaggi ha creduto negli oracoli e ha seguito quello che considerava essere il volere degli dei; qualcun altro, invece, ha finto di crederci solo per tornaconto personale. Ma infine, qualunque sia stata l’intenzione al momento del vaticinio e qualunque sia stata la consapevolezza degli attori messi in scena, gli oracoli hanno comunque avuto compimento: forse amor fati, forse self-fulfilling prophecy o forse vero intervento divino, chissà.
E quando le ombre di ciascun personaggio coinvolto nella triste e crudele storia appaiono dinnanzi alla Pizia di Delfi e al veggente Tiresia, creatori e manipolatori dei messaggi “divini”, entrambi morenti, ognuna racconta il proprio ruolo, confida la propria sofferenza, ma soprattutto svela la propria verità. Che non è mai la Verità. Perché questa, come spiega bene Tiresia nel lungo e illuminato monologo finale, è inaccessibile:
La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta.
La costruzione sapiente di Dürrenmatt, che intreccia, incastra, collide eventi e racconti, è diegeticamente magistrale: più si disvelano o vengono rivelate verità, più in realtà diventa immenso e insondabile il Mistero.
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