“Yukiguni”
La serenità e la solennità della Natura, la sua quiete pur nel mutamento perpetuo e ineluttabile, la sua consapevolezza, sono lo sfondo su cui si muovono – brancolando e annaspando – gli esseri umani, con la loro irrequieta inquietudine, il loro essere ignari di quale sia il proprio posto in questo mondo. Forse per dare espressione a tale verità Kawabata – in questo romanzo impalpabile, inafferrabile e che pur lascia un solco profondo nell’anima con la sua poesia e i suoi silenzi che parlano solo al cuore e lasciano la mente a ricercare a tentoni significati e accadimenti – descrive in modo così nitido, minuzioso, vivo la Natura e racconta invece solo a frasi spezzate, a episodi frammentati, la vicenda e i sentimenti dei tre protagonisti.
Il paesaggio era scuro, severo. Il crepitio della neve che gelava sulla terra pareva rimbombare nelle sue profondità. Non c’era luna. Le stelle, troppe per sembrare vere, si affacciavano in cielo con uno scintillio così vivo che parevano precipitare nel vuoto. […] Le vette della catena montuosa confondendosi l’una con l’altra, si levavano massicce sull’orlo del cielo stellato in un’oscurità così greve e fosca che pareva partecipare del loro peso. L’insieme della scena notturna si fondava in una pura, serena armonia.
Mentre la Natura semplicemente e magnificentemente esiste, l’uomo si sforza di vivere, ogni individuo a modo proprio; più volte torna nel testo il giudizio dell’ozioso Shimamura sullo “sciupo di energie” e lo “sforzo inutile” della geisha Komako, perch’ella scrive il suo diario, legge e ricopia i dati di tutti i libri che ha letto, con estrema volontà affina da sola l’arte dello shamisen, e soprattutto s’impegna ad accettare e a volgere al meglio il destino d’ombra che le è toccato.
Aveva una sensazione di vuoto per cui la vita di Komako gli pareva bella ma sciupata, anche se era lui l’oggetto del suo amore; eppure l’esistenza della donna, il suo sforzo per vivere, lo commuovevano come una pelle nuda. Aveva compassione di lei, e compassione di se stesso.
Anche la loro relazione è costantemente minacciata dal fantasma dello “sforzo inutile” e nasce, langue e si protrae in continui ripensamenti, accessi febbrili, fughe, concessioni, sublimazioni, che sin dal primo incontro dei due amanti ne predicono la fine. Così come la prima apparizione – vitale eppure effimera – dell’altra geisha, Yoko, e il ripetuto ricordare il tono triste della sua voce che la rende così unica e fascinosa, sono echi che giungono da un futuro troppo prossimo che la vedrà sfiorire. E così, infine, come le foglie d’acero e il loro rosso acceso, che colorano l’ultima visita di Shimamura a Komako nel paese delle nevi, che cedono il posto alla neve e a un nuovo inverno. Perché gli uomini e la Natura, pur con differenti consapevolezze, sono comunque vittime della caducità delle cose.
C’è molto, molto più di quello che una prima lettura, magari affrettata, di questo romanzo breve e solo apparentemente privo di eventi, potrebbe mostrare. E la mia è sicuramente una interpretazione solo parziale, magari fallace. Ma al di là dei significati e della trama, dello stile e della profondità di contenuti che ognuno può scorgervi in differenti modi, il romanzo di Kawabata vibra. Di vita, di attesa, di assenza, di resa, di morte. Ma vibra. E fa vibrare l’animo di chi lo legge. E lo rilegge. E lo rilegge ancora.
Nota: il libro è stato tradotto dalla casa editrice Einaudi dall’edizione inglese e non dal testo originale giapponese; durante la lettura emergono limiti e inconvenienti di tale scelta. Un vero peccato.
Nota: il libro è stato tradotto dalla casa editrice Einaudi dall’edizione inglese e non dal testo originale giapponese; durante la lettura emergono limiti e inconvenienti di tale scelta. Un vero peccato.
Recensione anche su Diario di Pensieri Persi
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