pubblicato su Diario di Pensieri Persi il 24 maggio 2013
Junkyo è un racconto di morte, di incomprensione, di negazione dei sentimenti. Ma è anche un racconto singolarmente sensuale, di un erotismo sotterraneo e disturbante che, muto, accompagna ogni singola pagina, e si manifesta in due episodi, bruschi e vibranti: un bacio ruvido nella luce spettrale di una notte di luna e un morso che richiede riconoscimento, senza ottenerlo, e colora di rosso la scena, sino a quel momento bicromatica e scura.
Junkyo è un racconto di morte, di incomprensione, di negazione dei sentimenti. Ma è anche un racconto singolarmente sensuale, di un erotismo sotterraneo e disturbante che, muto, accompagna ogni singola pagina, e si manifesta in due episodi, bruschi e vibranti: un bacio ruvido nella luce spettrale di una notte di luna e un morso che richiede riconoscimento, senza ottenerlo, e colora di rosso la scena, sino a quel momento bicromatica e scura.
Impressiona l’equilibrio con cui il giovanissimo Mishima, allora solo ventiquattrenne, costruisce questo breve racconto (del 1948), schizzando con eleganza, poesia e quasi con ferocia ritratti ed eventi e inserendovi in nuce tutti gli elementi che caratterizzeranno poi la sua produzione letteraria e che, probabilmente, rappresentano i suoi turbamenti, manie, ideali più profondi: l’omosessualità, il fascino della nudità maschile, il valore ambiguo della bellezza, il complesso e tormentato rapporto tra Eros e Thanatos.
Dalla prima apparizione di Watari, dalla descrizione della sua bellezza e dall’accenno al suo isolamento nella scuola, il lettore conosce quale sarà il suo destino e non può che attenderne, impotente, il compimento. Femminile nei tratti e nella docilità con cui risponde agli attacchi dei compagni di scuola, “armati fin dall’età di tredici o quattordici anni di una freddezza di cuore e un’arroganza degne di tanti adulti”, Watari è l’antonimo e al contempo la naturale metà – e quindi polo di ineluttabile attrazione - di Hatakeyama, il Re Demone del dormitorio, audace, crudele e bellissimo, che “nudo, aveva le forme perfette di un giovane uomo” e che, nonostante la giovane età, manipola, affascina e asserve i suoi compagni e quelli delle classi superiori. Galeotto del loro confronto è il “furto” di un libro – mascherato con una “non invitante carta marrone” ed etichettato “con caratteri infantili sulla costola” come Le vite di Plutarco – ambito da tutto il dormitorio: quando Hatakeyama punisce Watari per essersene appropriato senza permesso, tra i due archetipi squisitamente mishimiani del femmineo e del virile si accendono l’attrazione e l’avversione, che porteranno prima a una relazione erotica e poi all’uccisione di Watari per mano degli scagnozzi di Hatakeyama su suo ordine.
Non sfuggono i molti elementi della narrazione che giustificano il titolo e rimandano alla dimensione mistica del Cristianesimo: dall’atteggiamento mite di Watari alla sua caratteristica risposta ai soprusi e alle violenze subite dai compagni – il levare gli occhi al cielo quasi estraniandosi dalla scena –, alla misteriosa scomparsa del suo cadavere, che evoca l’immagine del sepolcro vuoto di Cristo.
Amore, morte e bellezza sembrano danzare sul palcoscenico di questo dramma in atto unico, impersonando ruoli inaspettati e dando vita a figure che sfuggono alle trame tradizionali. Dove l’una – la bellezza – dovrebbe innalzare l’altro – l’amore – ci sono invece mortificazione e rifiuto; dove l’uno – l’amore – dovrebbe annullare il desiderio dell’altra – la morte – ci sono invece esaltazione e distruzione.
Un piccolo gioiello, complesso, conturbante e inquietante.
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